Valle e frana del Vajont come Luogo Geologico

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Il Punto di vista della Terra.

Questo luogo porta i segni profondi di una storia recente, che è una storia geologica, fatta di terra e roccia franate e acqua trattenuta.
Quello che viene chiamato nel linguaggio comune Disastro del Vajont (avvenuto nel 1963) ha origini sì geologiche ma soprattutto umane. Risultò infatti che gli interessi enormi di pochi dominarono sul buonsenso e così qualcuno divenne padrone di luoghi e persone, oltre che della enorme diga e di quello che conteneva (acqua). Così forte e determinata fu la persecuzione di questi obiettivi che misero a tacere la natura e le comunità che l’avevano affiancata per millenni. L’esperienza e la conoscenza derivanti dal locale dialogo con la montagna, venne sciolta nell’oblio, e non si rispettarono i limiti dei corpi geologici.

La cosa che più mi colpisce quando vado a scrivere “corpo della frana del Vajont” è che non riesco più a pensare freddamente in chiave solo geologica, ma mi compare sempre la storia lentamente conosciuta della Tragedia del Vajont… volti, ferite, passi, fatiche, nomi, resistenza. La parola “corpo” qui prende veramente carne, anche se solitamente un “corpo di frana” non ha carne. Qui i sassi parlano, davvero.
Questo territorio è conseguenza di un’eredità geologica estremamente ricca, appartiene al contesto delle Dolomiti UNESCO World Heritage Site (WHS) (Sistema 4 – Dolomiti Friulane), ed è inciso dal torrente Vajont e dai suoi tributari, i torrenti Zemola e Mesazzo

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Inquadramento geografico - mappa Sistema 4 Dolomiti UNESCO e area del Comune di Erto e Casso (Dolomiti Project srl)

Un’area ricca di tracce evolutive e di corpi geologici che raccontano con grande dettaglio circa 200 milioni di anni di storia del nostro pianeta e, proprio per questo, ricca di bellezza.

Le rocce affioranti raccontano di ambienti marini antichissimi, mediamente poco profondi e brulicanti di vita, che dalla relativa tranquillità del Triassico Superiore (237-201 milioni di anni), passarono a registrare sconvolgimenti legati all’apertura della crosta avvenuta nel Giurassico quando l’Oceano Atlantico iniziò a prendere forma. In questo tempo si registra dunque lo approfondimento del fondale marino che copriva questa regione.

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Paleoglobo fra Triassico e Giurassico con la posizione della futura area dolomitica. Illustrazione Giorgia Revelli

Nel Giurassico (201-145 milioni di anni), l’area fu interessata da un ribassamento lento e progressivo che trasformò lentamente questa parte di Dolomiti da piatta pianura posta al livello del mare e regolarmente invasa dalle maree, in una lingua di oceano. Uno sprofondamento che provocava anche eventi come sismi e conseguenti frane sottomarine. Circa 170 milioni di anni fa, il nuovo fondale marino, si raccordava a nord-ovest e a sud-est con delle aree rimaste al pelo dell’acqua e in alcuni casi, emerse. Due enormi piattaforme carbonatiche (la veneto/trentina e la friulana) dove esseri viventi marini e tropicali costruivano scogliere e dove dalla collaborazione fra acque, sole e organismi la natura produceva grandi quantità di carbonato di calcio (origine di calcari e dolomie). Questi due edifici carbonatici erano isolati da una spaccatura oceanica (bacino di Belluno).

Paleoambiente
Paleoambiente Giurassico con posizione dell’area del comune di Erto. Illustrazione Elena Anna Manfrè

la diga in costruzione
Calcare selcioso giurassico della zona del Vajont. Ph Emiliano Oddone

Solo a partire da circa 100 milioni di anni fa la serie di depositi ereditati da questi mari antichi cominciarono a subire la lenta compressione, figlia dalla migrazione della placca africana verso quella indo-europea, con il definitivo distacco della prima dal Sud America e l’inizio della crescita della catena alpino-hymalayana. La compressione fra Africa ed Europa determinò nel libro di rocce un complesso sistema di faglie e pieghe che ancora oggi sfogano l’energia che si accumula dallo scontro fra i due continenti. La valle del Vajont, come il resto delle Dolomiti fa parte della placca Adria, un pezzo d’Africa, che risalendo l’Adriatico si indenta, proprio a partire da queste zone, contro l’Europa. E’ questo scontro che ha deformato e continua a deformare le rocce definendo i corpi delle nostre montagne.

panoramica
Panoramica con il Monte Toc e il Col Nudo. Ph Emiliano Oddone

Nelle ultime migliaia di anni, i presenti e fragorosi torrenti Vajont, Zemola e Mesazzo hanno scavato e continuano a scavare queste rocce, favoriti dai cambiamenti climatici che sono avvenuti durante il Quaternario (periodo che va da circa 3 milioni di anni fa ad oggi). Andando indietro di “solo”qualche decina di migliaia di anni, durante l’ultima glaciazione, detta Würmiana, avremmo trovato le acque dei torrenti ghiacciate e le valli riempite da ghiacciai. Le lingue ghiacciate pulsando fra le rocce, contribuirono a modellare anche queste valli già precedentemente indebolite, fratturate e piegate dalle enormi forze legate all’attività tettonica che sollevò lentamente la catena Alpina.

Piega monte Porgeit
Piega nel versante occidentale del Monte Porgeit. Ph Emiliano Oddone

piega superficie scivolamento
Piega sul piano di scivolamento della frana, versante nord Monte Toc. Ph Emiliano Oddone

Queste forze, qui sono ancora attive e fanno dell’area una zona ad elevato potenziale sismico. La presenza di sismi, le molte faglie e pieghe nelle rocce e le forti pendenze, sono tutti elementi che giocano a favore di una notevole attività geologica complessiva dell’area, e, quindi, di una attitudine all’evoluzione anche “repentina” dei luoghi.

Tornando al presente, oggi, tutt’attorno, vediamo montagne bellissime, che raccolgono l’eredità dai mari del passato e degli accadimenti più recenti. Sublime scultoreo risultato di innumerevoli fenomeni e relativi depositi, diventati roccia e montagna grazie ad un tempo lunghissimo.

Il Vajont (inteso tutto il comune di Erto e Casso) è un luogo di eccellenza per osservare l’evolversi di erosioni e deposizioni in diversi ambienti: tutta la zona risulta ricca di “giovani” sezioni geologiche, conservate spesso proprio grazie alle numerose frane occorse a partire almeno dal Tardoglaciale (18-15000 anni fa). Ne è un esempio l’enorme frana della Pineda, che ha sepolto permettendone la conservazione: una parte dell’antica valle del Mesazzo, depositi di antichi fiumi collegati ai ghiacciai e depositi di un antico lago glaciale. Ne deriva che le frane qui più che altrove, sono elementi utili a conservare la memoria di quanto è avvenuto prima, come le coperte conservano il calore.

Tutta l’area è un concentrato di tracce geologiche importanti, ben inscritte nel paesaggio, di cui, solo le più recenti trattano del disastro del Vajont.

La frana del Vajont, enorme scivolamento del versante del Monte Toc, avvenuto a seguito della realizzazione del bacino artificiale e della diga del Vajont (1963), è solo un recente episodio fra i tanti intercorsi in milioni di anni. Una catastrofe, questa volta indotta da un’interferenza umana. Il lago nella sua artificialità, variava continuamente di livello, facendo infiltrare le acque in masse già instabili. Il versante nord del monte Toc, infatti, era in pratica una vecchia enorme frana, coi piedi segati dalla gola incisa dal torrente Vajont. Mettendo ai piedi di un antica frana un lago pulsante, e avendo in quella frana rocce stratificate interessate dalla presenza di strane argille che si espandono in presenza d’acqua, si è giunti alla rottura dell’equilibrio. Circa 370 milioni di metri cubi di materiale scivolati a 25 m/s (circa 80 km/h)… dentro al lago, che trasalì. Un evento così grande da attivare altri fenomeni nelle vicine valli e a monte della frana, in un evoluzione del territorio molto particolare, sia sul piano ecologico-ambientale che sul piano geologico, oltre che sociale.

frana del vajont
Frana del Vajont. Ph Emiliano Oddone

L’incapacità di lettura complessiva della natura attraverso il solo sguardo della scienza; l’idolatria della tecnica che non ascolta il limite definito dalla montagna e il conseguimento del profitto economico attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, sono fra gli elementi di disturbo nel comprendere il respiro della Terra. Così si perde la visione di scala, l’umiltà e l’attenzione dovuta, ci si dimentica di far parte di un sistema complesso, arrivando a pensare di avere il controllo su qualunque conseguenza. In poche parole si rischia di “cadere”, e quando succede in montagna, spesso si muore.

Queste valli riflettono temi relativi agli equilibri fra presenze umane e ambiente naturale e presentano spazi infiniti per impressionare le coscienze. Insomma, ancora in poche parole sono luoghi unici di chiara bellezza che ancora possono e devono essere scoperti. Montagne come altoparlanti naturali, luoghi perfetti per una scuola di geoetica e prototipo di luogo adatto per l’ecoturismo, anche internazionale.

I segni del disastro del Vajont, seppur molto presenti, appaiono ormai quasi sfumati. Ciò significa che, passati solo cinquant’anni un visitatore della valle, ignaro e frettoloso, potrebbe non avere i termini per recuperare la memoria dell’evento catastrofico del 1963. Ciò che era evidente negli anni 60 del secolo scorso non lo è già più oggi!!! Questo allarga lo sguardo sul futuro ma contemporaneamente ci mette a rischio di perdere dei valori molto importanti. Le catastrofi possono essere definite delle interferenze nel lento e regolare geologico evolversi delle cose e, alla scala umana, possono essere fonte di pericolo, non vanno dunque dimenticate, ricordando che esse risultano fuggevoli, repentine sia nell’accadere, che nel mimetizzarsi, scomparendo alla vista.

Il corpo della frana del Vajont è un grande incompreso: un corpo geologico generato da un leggero stiracchiarsi della crosta terrestre in risposta ad un abuso, un po’ come un cavallo che vibra col muscolo per scuotere la pelle dove si è annidato il tafano.

Questi corpi geologici sono stati visti per decenni come orribili segni dell’accaduto, tuttavia, poggiandoci i piedi e respirandoci sopra, regalano ambienti incredibilmente ricchi e belli, fatti di associazioni vegetative improbabili, di resti e tracce dell’onda che riportano pietraie con forme sempre cangianti. Di animali che vi hanno posto dimora. Vi sono anche resti e tracce della vita che si svolgeva sul monte prima della frana (vedi Casera Manarin, muratura della vecchia strada, resti di tubazioni legati alle indagini geologiche, come tubi inclinometrici e piezometrici). Sulla frana del Vajont, anche in funzione delle sue dimensioni, si possono percorrere lembi residui di antichi depositi del ghiacciaio del Piave, come sono anche molto diffuse le porzioni rocciose scarsamente vegetate. In queste parti sono dominanti le fessure e le trincee, macinate dal tragico percorso e, da allora, sottoposte a forte erosione, frequenti piccoli crolli e colate di detrito.

lago residuo
Il lago residuo del Mesalezza sul corpo della frana del Vajont. Ph di Emiliano Oddone

bosco vecchio
Bosco Vecchio sul corpo della frana con piante abbattute che, restando vive, hanno sviluppato forme anomale. Ph Emiliano Oddone

Avvicinandosi alla nicchia della frana del ’63, si possono percorrere conoidi e pietraie composte da enormi lastre calcaree dovute a crolli e scivolamenti lungo strato che si susseguono stagionalmente. Un ambiente molto vario, facilmente frequentabile che conta anche preziose zone umide in alcune depressioni (vedi laghetto del Mesalezza) e lembi del bosco residuo (miracolosamente radicato e ancora vivo) appartenuto alle quote medio alte del monte Toc, con le piante migrate durante l’enorme scivolamento del 1963 alle quote attuali (di cui uno è il noto Bosco Vecchio).

Invito tutti, visitatori, ricercatori, studenti a sacralizzare la Terra che calpesteranno qui, fra i luoghi legati ai paesi di Erto e Casso. Le suggestioni che incontreranno sono davvero uniche, ed è raro poter avere l’opportunità di metter piede in luoghi così simbolici e ricchi di spunti di riflessione. Qui si può proporre a tutti uno sforzo, di trasferire e formalizzare queste impressioni negli organigrammi dei percorsi educativi, nella pianificazione e nelle agende di chi prende le decisioni più importanti per il futuro di questa parte delle Dolomiti UNESCO. Qui si può dare alle scienze geologiche un ruolo orientato allo sviluppo delle coscienze, finalizzato a inquadrare il nostro pianeta come frutto di un gioco di equilibri dinamici aperti, sempre capaci di restituire vita, e questa, a sua volta, capace di resistere, di modificarsi, di regalarsi, senza soluzione di continuità.

Un luogo di inestimabile valore e di grande bellezza capace di coinvolgere e stupire in ogni angolo ed in qualunque stagione. Un Luogo Geologico, dove ogni sasso parla, da frequentare in punta di cuore.

A cura di: Emiliano Oddone (Dolomiti Project Srl – www.dolomitiproject.it)

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